diritto al cuore

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25 Aprile 2020

Il 25 Aprile si festeggia la Liberazione dal nazi-fascismo. Il mio desiderio è che in occasione del 25 Aprile 2020 si festeggi anche la Liberazione dalla paura, o meglio, dall’angoscia da COVID-19. Basta  con i giornalieri bollettini di guerra sul numero dei morti. Sappiamo bene che quello che registriamo oggi è la fotografia  degli ammalati di più di venti giorni fa. Questi numeri non riflettono la situazione attuale così come non la riflettono il numero dei guariti. Sicuramente più incoraggianti e più vicini all’istantanea del momento sono il numero dei contagiati, il numero dei ricoveri e i pazienti in terapia intensiva. Questi numeri sono incoraggianti e dimostrano che, a fronte del protagonismo mediatico di virologi, epidemiologi, igienisti,  i medici che lavorano sul campo (anestesisti, pneumologi, infettivologi, cardiologi), dopo l’iniziale ondata travolgente di malati, riescono a gestire e a curare meglio i pazienti. Se i ricoveri, anche in terapia intensiva, scendono non è perché il virus è diventato meno aggressivo, ma perché abbiamo cominciato a conoscerlo meglio e a combatterlo meglio, anche in assenza di vaccino.

Il pensiero ai medici, su cui ancora viene riversata tanta retorica (eroi, angeli), si ricollega ad un altro valore che ricordiamo e festeggiamo in questo giorno. La Resistenza. Sì, proprio la resistenza di tutto il personale sanitario che, anche se inizialmente con scarsi presidi protettivi, ha resistito e ha fronteggiato lo tsunami assistenziale. Ma non solo i medici, anche gli italiani stanno resistendo e bene. Mi viene in mente l’immunità di gregge: gli italiani, lungi da comportarsi da pecore, stanno acquisendo la giusta consapevolezza e responsabilizzazione nei confronti delle norme igienico-comportamentali di prevenzione. Se in questa fase 2 ripareremo le falle dimostrate dal virus nel nostro sistema sanitario (trascuratezza della medicina del territorio, ospedalità privata accreditata, carenze organizzative delle RSA) e continueremo a svolgere operazioni culturali e di corretta informazione alla popolazione, la nostra RESISTENZA trionferà, con l’acquisizione della meritata LIBERTÀ  non solo dal virus, ma anche dalla stolta propaganda e dalla nauseante retorica.  

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Cardiologia e Covid-19

Infettivologo, Rianimatore, Pneumologo… ma il cardiologo, o meglio lo specialista in malattie cardiovascolari, che ruolo riveste nella pandemia di COVID-19?

In questi giorni le indagini scientifiche sulla fisiopatologia della COVID-19 sono oggetto di studio per ricercatori in tutte le branche specialistiche. Emerge lentamente un quadro di coinvolgimento multi-sistemico da parte del virus, in cui la polmonite rappresenta solo la punta di un iceberg. Il coronavirus ha mostrato la capacità di coinvolgere organi ed apparati diversi da quello respiratorio, per via diretta (con replicazione nel tessuto colpito) oppure per via indiretta, attraverso lo squilibrio indotto nel sistema immunitario con produzione inappropriata di mediatori infiammatori. Un ulteriore aspetto cruciale legato alla pandemia è emerso dall’analisi nell’andamento dei ricoveri per condizioni non relate alla COVID-19. Esistono ormai dati pubblicati in molte zone del mondo sulla drastica riduzione degli accessi in pronto soccorso per tutte le patologie, anche urgenti, che non determinano sintomi sovrapponibili a quelli della polmonite da COVID-19. Sebbene questo sia un dato prevedibile, entro certi limiti, in considerazione della differibilità degli accertamenti diagnostici per sintomatologie croniche o lievi, la preoccupazione nasce proprio dai numeri forniti dalle cardiologie, anche con la collaborazione del nostro istituto. E’ stato messo in evidenza uno scenario in cui molte persone vittima di infarto cardiaco e/o di aritmie potenzialmente mortali, preferiscono non recarsi in pronto soccorso oppure si presentano tardivamente.

Dunque, che ruolo ha il Cardiologo nello scenario della pandemia?

E’ possibile riassumere questa riflessione in tre PPre-esistenti patologie cardiovascolari – Patologia cardiovascolare da Coronavirus – Paura di “infettarsi”.

Sappiamo bene che il Coronavirus colpisce più spesso e più duramente i pazienti con co-patologie, fra tutte l’ipertensione, le cardiopatie e il diabete hanno mostrato di avere un tasso di letalità molto alto, che sarebbe superiore anche alle patologie oncologiche, secondo alcune casistiche.

Cresce ogni giorno il numero di pazienti con COVID-19 in cui il virus determina coinvolgimento cardiovascolare in varie forme. Una di queste è l’infiammazione del muscolo cardiaco, probabilmente determinata per via indiretta e capace di ridurre improvvisamente e severamente la contrattilità del cuore. Analogamente, uno dei meccanismi patogenetici più importanti della COVID-19, sarebbe il danneggiamento dei piccoli e grandi vasi che esita in un tasso di trombo-embolismi venosi e arteriosi aumentato. Per questo motivo, l’eparina, di cui si discute negli ultimi giorni, sta diventando un farmaco di scelta per il protocollo terapeutico in tutto il mondo.

Infine, come già discusso, non è da sottovalutare la possibilità di una scelta (sbagliata) da parte dei pazienti con insorgenza di malattie cardiache durante la pandemia, di non accedere alle cure. La severa riduzione delle coronarografie e dei ricoveri per infarto cardiaco descritta ormai in tutti i paesi del mondo, è in parte spiegata dalla “Paura di infettarsi” qualora si dovesse accedere alle strutture ospedaliere. Abbiamo visto, in questi giorni, pazienti che trascinavano i propri sintomi, anche gravi come il dolore al petto, per diverso tempo prima di recarsi in pronto soccorso. Questa situazione può determinare la perdita di gran parte della capacità contrattile del cuore o anche la morte. Il meccanismo subdolo, “psico-mediato” e indipendente dalla reale presenza del virus, rappresenta dunque per molti aspetti la più inaccettabile delle tre P.

 E allora quale sarebbe il ruolo del cardiologo:

1) Partecipare alla gestione multidisciplinare dei pazienti con cardiopatie pre-esistenti;

2) Imparare a riconoscere e contrastare l’insorgenza di un coinvolgimento cardiovascolare da parte del virus;

3) Assicurare la presenza di percorsi di cura “sicuri” e la corretta informazione per tutti i pazienti che, anche in assenza di COVID-19, si trovano costretti ad accedere agli ospedali in questo difficile periodo.

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Pandemia da Covid e infodemia di notizie sensazionalistiche

In questi giorni è rimbalzata sui alcuni giornali italiani la notizia secondo cui il virus Covid-19 avrebbe la capacità di raggiungere ed insiedarsi all’interno dei testicoli dell’uomo e questo determinerebbe una maggior mortalità nel genere maschile rispetto alla popolazione femminile.

Questa notizia è stata ripresa da una ricerca condotta da un team di ricercatori diretti dal presidente del dipartimento di Epidemiologia dell’Albert Einstein College of Medicine di New York. In questo studio è stato analizzato un campione di 68 persone, composto da 48 uomini e 20 donne, con tampone naso-faringeo positivo per infezione da Covid 19. Il disegno dello studio prevedeva l’esecuzione di tamponi naso-faringei seriati, a partire dal primo tampone positivo e con un intervallo di circa 48 ore, fino alla comparsa del primo tampone negativo.

Andando ad analizzare questi dati, è stato osservato che gli individui maschi del campione studiato, avevano i tamponi positivi per un tempo statisticamente più lungo della popolazione femminile.

Da questi dati i ricercatori traggono delle conclusioni abbastanza fantasiose secondo cui questa differenza è causata dal fatto che il virus abbia la capacità di colonizzare i testicoli degli uomini, diventando quest’ultimi una sorta di serbatoio del virus.

A supporto della loro tesi, sostengono che i testicoli esprimono i recettori ACE2 che sono stati riconosciuti come i recettori usati dal virus per entrare all’interno delle cellule.

Ora, andando ad approfondire in modo scientifico e oggettivo i metodi di questa ricerca, ci appaiono subito evidenti un paio di errori metodologici importanti che la rendono decisamente poco attendibile.

In primo luogo, il campione è di dimensioni molto esigue, 68 individui non sono sicuramente un campione rappresentativo della popolazione generale. Ma ancora di più, le nostre perplessità nascono dalla composizione del campione: la popolazione maschile, infatti, rappresenta più dei 2/3 dell’intero campione, non permettendo, quindi, un confronto adeguato tra popolazione maschile e femminile.

Altra grande perplessità ci nasce dalla mancanza di una possibile spiegazione fisio-patologica delle loro conclusioni. Se è vero che i recettori ACE-2 sono stati identificati come i recettori attraverso cui il virus entra nelle cellule polmonari e anche vero che, proprio a livello polmonare, quest’ultimo crea danni molto importanti. Perché, se il virus ha la capacità di entrare nelle cellule del testicolo umano, non crea anche qui danni? Fino ad adesso non è stato mai segnalato nessun caso di orchite o di altra patologia infettiva del testicolo, com’è possibile questo?

Mi sembra quindi che ci siano parecchi spunti di riflessioni che ci fanno essere molto scettici sulle conclusioni di questa ricerca.

Volendo sorridere, mi viene in mente una storiella che ripeto spesso ai miei collaboratori: la cimice come sapete ha sei zampette, uno scienziato vuole vedere cosa succede alla cimice staccandole le zampette, ne stacca una e la cimice salta, ne stacca un’altra e la cimice salta di nuovo, stacca via via ogni zampetta ed ogni volta la cimice salta, arrivato alla sesta ed ultima zampetta, la stacca ma la cimice non salta, lo scienziato conclude: la cimice è diventata sorda!!

La modalità con cui i ricercatori hanno tratto le conclusioni mi sembra assimilabile a quella dello scienziato della storiella.  In ambito medico bisogna fomentare ed incoraggiare qualsivoglia ricerca che possa portare a delle nuove conoscenze ma, queste devono essere condotte secondo un metodo scientifico valido. Come diceva il fondatore del metodo scientifico Galileo Galilei, bisogna far seguire alle “sensate esperienze” le “dimostrazioni necessarie”; in questo caso, ci sentiamo di poter dire, che quest’ultime non vengono fornite

E’ quindi evidente come non ci si possa basare su questo studio per poter concludere che il virus possa colonizzare i testicoli e, ancor di più, affermare che questa è la causa della maggior mortalità del genere maschile.

Questa è invece ascrivibile a numerosi fattori, tra cui la maggior presenza di fattori di rischio cardiovascolare tra cui ipertensione e obesità nei pazienti di sesso maschile e probabilmente, nelle differenze genetiche del sistema immunitario fra i due sessi.

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Fase 2 epidemia COVID: riflessioni di chi opera sul campo – Intervista del Professor F. Fedele a RadioSei

L’intervista del Prof. Fedele a RadioSei sulla fase 2 dell’epidemia COVID.

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Fase 2 dell’epidemia COVID 19: non dimentichiamo il rafforzamento del Sistema Sanitario Nazionale pubblico

Negli ultimi mesi il Coronavirus è prepotentemente entrato nelle nostre vite sconvolgendo la nostra normale routine. Lo stravolgimento che questa infezione ha generato è conseguenza della grande capacità di trasmissione del virus che ha determinato un numero molto elevato di pazienti affetti. La potenza di questo virus, infatti, risiede più nella sua capacità di propagarsi tra la popolazione che nella mortalità e morbilità nel singolo paziente.

La diffusione del virus con un enorme numero di pazienti infetti che avevano bisogno di cure in ospedale ha fatto sì che questi ultimi fossero letteralmente invasi dai pazienti. Ci si è quindi trovati costretti a ridurre la qualità di cura sul singolo paziente per poterli curare tutti. In particolare, si è persa la possibilità di un approccio multidisciplinare ai pazienti, ed è così che questo virus sta “stressando” il nostro Sistema Sanitario.

Riassumendo, responsabile della criticità sanitaria del momento documentata dall’alto numero di morti, è prevalentemente lo tsunami dell’impatto assistenziale sul nostro sistema sanitario legato alla quantità di pazienti che contemporaneamente necessitano di cure anche in condizioni critiche con sovraccarico e sovraffollamento delle terapie intensive.

Tutti, popolazione generale e operatori sanitari siamo impressionati dal numero di vittime di questa epidemia e spesso si fa riferimento per analogia alla strage prodotta dalla Influenza Spagnola nel primo dopoguerra del secolo scorso. Per fortuna, e questo deve essere un messaggio forte, non siamo ai tempi della Spagnola e dobbiamo essere consapevoli della qualità della Medicina moderna che ha fatto enormi passi avanti nella comprensione e nella cura delle malattie e che le armi in nostro possesso oggi sono sicuramente in numero maggiore e con una efficacia superiore rispetto a quelle che avevano i nostri avi.

La consapevolezza di poter disporre delle attuali risorse della Medicina, anche in termini tecnologici e di poter avere l’occasione di rafforzare il nostro Sistema Sanitario Nazionale è fondamentale in un momento in cui si sta affrontando il tema della cosiddetta “fase 2” ovvero quella fase in cui riprenderemo gradualmente ad avere una vita normale. Nell’affrontare questo tema rivestono un ruolo importante le valutazioni epidemiologiche e le possibili strategie da attuare per annullare o ridurre il numero di nuove infezioni.

Del tutto recentemente il Prof. Ranieri Guerra, vicedirettore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e membro del comitato tecnico-scientifico ha elencato i sei passi per avviare la fase 2. Il primo passo è controllare che il numero di nuovi casi continui a decrescere per almeno due settimane; il secondo che le capacità di fare i test, sia quelli basali sui tamponi sia quelli sierologici per la ricerca anticorpale, siano sufficienti; il terzo l’utilizzazione dei test sierologici per avere informazioni statistiche globali; il quarto legato all’utilizzo di app come strumento fondamentale per seguire le persone che potrebbero contagiare o essere contagiate; il quinto e il sesto relativi agli ospedali con un organizzazione che differenzi le strutture Covid e non-Covid e che riduca l’impatto assistenziale sia nei reparti di degenza ordinaria sia nelle unità di terapia intensiva.

Sono perfettamente d’accordo con questa impostazione ma vorrei soffermarmi con alcune considerazioni sugli ultimi due punti. Sono convinto che, per detendere l’impatto assistenziale ospedaliero sia fondamentale rafforzare l’assistenza sul territorio garantendo la monitorizzazione dei pazienti meno gravi anche domiciliarmente. Sono pazienti che possono essere trattati fin dalle fasi iniziali con farmaci, e che hanno bisogno di un attenta monitorizzazione sull’evoluzione clinica generale e cardio-polmonare in particolare. A questo proposito l’utilizzo su larga scala della telemedicina, non soltanto delle app, può essere risolutivo.

Per quanto riguarda la differenza negli ospedali tra strutture Covid e strutture non-Covid vorrei ricordare l’importanza di disporre e di potenziare strutture pubbliche, come il Policlinico Umberto I e l’Ospedale San Camillo per quanto riguarda la città di Roma, caratterizzati dall’organizzazione a Padiglioni, secondo una visione lungimirante che prevedeva edifici dedicati ai malati infettivi, ben distinti dalle strutture dedicate alla cura di altre patologie.

Ritengo che un punto fondamentale e estremamente qualificante di questa fase 2 sia proprio il rafforzamento del Sistema Sanitario Nazionale sia sul versante del territorio sia sul versante degli ospedali pubblici, troppo spesso negli ultimi anni mortificati da tagli di risorse umane e strutturali (numero di posti letti ordinari e di terapia intensiva) a favore di strutture private accreditate. Lombardia docet e non aggiungo altro per non entrare in una polemica attualmente intempestiva.

Infine vorrei sottolineare alcuni dati positivi nel tentativo di controbilanciare i “bollettini di guerra” giornalieri: come vedete il numero di guariti sta aumentando, il numero di malati in terapia intensiva sta diminuendo e questo non perché il virus ha cambiato in meglio le sue caratteristiche ma perché riusciamo, anche in assenza momentanea di vaccini, a curar meglio i nostri pazienti con interventi mirati e differenziati a seconda delle fasi della malattia e della sua gravità.

Sono convinto, e finisco, che se riusciamo a contenere l’impatto quantitativo di questo virus con un organizzazione sanitaria capillare territorio-ospedale, avremo l’opportunità di curare i pazienti in modo adeguato, con un approccio multidisciplinare al paziente e di usare le armi che abbiamo sviluppato in questa prima fase in maniera sempre più appropriata e mirata.

La consapevolezza di poter arginare non solo con la prevenzione, ma anche con la qualità assistenziale questa pandemia permetterà senz’altro di affrontare con maggiore serenità le fasi di ripresa del nostro Paese.